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Minari e il mistero delle sei nomination agli Oscar

VISTI DA VITTORIA di VITTORIA EPICOCO | Uno dei primi film della riapertura: dove vederlo (comunque)

di Vittoria Epicoco

PERUGIA – Ben 6 nomination agli Oscar 2021, di cui una vinta da Yuh-Jung Youn come migliore attrice non protagonista ma, ad essere del tutto onesti, noi non sappiamo il perché di tutte queste candidature.

Forse ignoranza – direte voi – comunque… de gustibus.
In Minari, Lee Isaac Chung mette in scena una breve parentesi della vita della famiglia coreana Yi la quale, dalla California, si sposta in Arkansas per inseguire il tanto ambito sogno americano. Se Jacob (Steven Yeun), il capo famiglia, è assolutamente entusiasta della nuova avventura, perché desideroso di avviare una propria attività agricola, Monica (Han Ye-ri), dal canto suo, è invece più riluttante all’idea di vivere in una casa su ruote in mezzo al nulla. A sconvolgere equilibri già abbastanza precari, però, è la nonna Soon-ja (il premio Oscar Yuh-Jung Youn), il “compromesso” trovato dai coniugi Yi pur non spostarsi dalla nuova sistemazione. Soon-ja è una donna decisamente sui generis, che ben poco rispecchia i canoni della nonna tradizionale, e questo è da subito evidente ai figli di Jacob e Monica, Anne e David. Passi la nomination per la miglior colonna sonora (non vinta, comunque) sulla quale si può essere d’accordo, passi anche quella per la migliore attrice non protagonista, più condivisibile di altre. E sì, ci può stare anche la nomination a miglior regista; ma certo non per il miglior film o la miglior sceneggiatura, e non perché sia un film di scarsa fattura. La trama, però, pur se ricamata con un filo di coerenza tra inizio e fine, è intervallata da elementi che danno l’idea come di vuoti narrativi; sussistono, in effetti, veloci e numerosi stacchi di camera, tanto da apparire quasi fastidiosi all’occhio, con cui troppo rapidamente si effettua un cambio d’ambiente, ma senza un ben strutturato collegamento narrativo. Anche la fluidità dei dialoghi viene meno (qui sicuramente l’aggravante sta nel doppiaggio che dà un risultato molto innaturale) ma anche per il fatto di essere dialoghi scarni, composti da due, massimo tre periodi, e lunghe e silenti pause.
Però… però tutti questi elementi, che possono più o meno penalizzare l’intera pellicola, confluiscono in quella che si rivela un’ottima fotografia. Vengono esaltate cromie calde e brillanti, che certamente trovano libero sfogo nell’immenso prato verde che circonda la “casa su ruote”; e altrettante panoramiche che si dipanano tra frutta, verdura, campi arati, fino a sottoboschi selvaggi con piccoli rigagnoli. Qui il perché del titolo Minari; il minari, infatti, è un ortaggio paragonabile al crescione, ed è molto utilizzato nella cucina sudcoreana.
Il film, allora, altro non vuole essere che una lunga metafora: come il minari, la stessa famiglia Yi è trapiantata in terra americana nella quale, ognuno come può, cerca di integrarsi ma mai trascurando le proprie origini, anzi, lo sforzo di Jacob, di coltivare prodotti tipicamente coreani, è apprezzabile nella misura in cui, altre famiglie come la loro, possano assaggiare (ricordare) un pezzo di casa.
Minari è però anche autobiografico; come gli Yi, infatti, anche la famiglia di Lee Isaac Chung si trasferì proprio in Arkansas negli anni ’80 per costruire una nuova vita, in una nuova terra.

Non stupisce che, tra le varie candidature, Minari ne abbia vinta almeno una, dopotutto è un risultato che resta assolutamente coerente con le recenti scelte politiche dell’Academy hollywoodiana; per capirlo, però, è necessario andare oltre l’estetica e la tecnica.
Minari vale la pena d’esser visto già solo per essere stato uno tra i primi film ad essere proiettato nelle sale cinematografiche a seguito delle ri-aperture; a Perugia è al Postmodernissimo… e per i più pigri, su NOW Tv.

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